LEPRE Lepus europaeus
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Analisi di vocazione per province:
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Lunghezza testa-corpo:
40-70 cm; lunghezza coda 8-10 cm
Peso medio:
1,5-6,5 kg.
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Distribuzione:
Europa e Transcaucasia. In Europa è assente nella Penisola Iberica, in Islanda, in Sardegna, Sicilia e nelle Baleari, introdotta in Irlanda e Svezia. E’ stata inoltre introdotta con successo in America settentrionale e meridionale, Asia e Oceania. In Italia è presente su tutto il territorio nazionale, escluse le isole maggiori e la parte più elevata delle Alpi.
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Caratteristiche generali
Mantello grigio-fulvo, più scuro o tendente al nerastro sul dorso. Parti ventrali biancastre, coda bianca nella parte inferiore, nera superiormente. Orecchie lunghe con la punta nera. Corpo slanciato, dorso arcuato e zampe posteriori notevolmente più lunghe di quelle anteriori che la rendono adatta al salto e alla corsa. Conduce vita solitaria e solo durante il periodo dell’estro maschi e femmine si incontrano. L’attività riproduttiva si estende per molti mesi e dove le condizioni climatiche sono favorevoli possono verificarsi fino a cinque parti all’anno. E’ in grado di adattarsi a una grande varietà di ambienti, soprattutto aperti: prati, pascoli, incolti erbacei, brughiere, margini di boschi, coltivi ecc., dal livello del mare fino a 2000 m. di altitudine. Gli ambienti meno favorevoli sono quelli con umidità elevata, le boscaglie e le foreste molto estese e le coltivazioni che, oltre ad essere sottoposte a massivi trattamenti con prodotti chimici ad elevata tossicità, presentano un utilizzo a monocolture semplici. Si nutre prevalentemente di parti verdi di graminacee e leguminose, cui si aggiungono in inverno, frutta, bacche, semi ecc. Essendo ghiotta anche di corteccia può produrre danni anche consistenti a frutteti e vivai. Conduce vita notturna e crepuscolare e trascorre le ore del giorno in uno dei numerosi giacigli, ben riparati nella vegetazione, che essa appronta nel suo territorio.
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Status e modificazioni recenti
In molti paesi europei, soprattutto a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, si è assistito a una costante diminuzione della densità e dei carnieri di Lepre comune. Tale fenomeno, attribuito sia ad una riduzione quali-quantitativa degli ambienti favorevoli sia all’aumento della pressione venatoria, è risultato particolarmente evidente nel nostro Paese (Spagnesi e Trocchi, 1992). In Italia l’evoluzione dello status è stata caratterizzata da due principali periodi: il primo, collocabile tra i primi anni ’50 e la metà degli anni ’60, in cui si è assistito ad un sostanziale incremento numerico; il secondo, che va dalla fine degli anni ’60 ai nostri giorni, in cui la Lepre ha conosciuto un lento ma progressivo regresso, culminato in una condizione di crisi generalizzata, che ha visto e tuttora vede lo status della specie fortemente condizionato dalle immissioni a scopo di ripopolamento e dal prelievo venatorio. Come per altre specie di piccola selvaggina, le ragioni del decremento della Lepre vanno ricercate nelle modificazioni intervenute nelle tecniche agricolturali e negli ambienti agricoli, che hanno determinato un abbassamento della qualità media degli ecosistemi agrari. In particolare vanno sottolineati tutti gli aspetti collegati alla ricomposizione fondiaria, con il conseguente aumento delle dimensioni medie degli appezzamenti, lo sviluppo delle monocolture, la riduzione degli indici di frammentazione, la quasi scomparsa delle siepi, dei boschetti e delle altre parcelle a vegetazione spontanea. Come per altre specie di interesse venatorio, non va sottovalutato il ruolo avuto dall’aumento della pressione venatoria verificatosi a partire dagli anni ’50 e ’60, esistono infatti esempi del fatto che opportune limitazioni al prelievo venatorio (ad esempio attraverso la costituzione di una adeguata rete di aree protette) consentono la sopravvivenza di buone popolazioni di Lepre anche in presenza di agricoltura specializzata ed estrema semplificazione del paesaggio agricolo (Ferri, 1988). Non mancano neppure all’estero esempi di aree sottoposte ad agricoltura intensiva e prelievi venatori programmati in grado di sostenere densità e produttività più che soddisfacenti (Spittler, 1992).
La Lepre può essere considerata, per l’Emilia-Romagna, la specie cui è stata dedicata tradizionalmente maggiore attenzione gestionale da parte degli enti pubblici delegati. L’utilizzo a scopo di ripopolamento di lepri catturate all’interno di zone di ripopolamento e cattura può essere fatto risalire in ambito regionale all’inizio degli anni ‘50, con l’istituzione cioè di numerose aree protette destinate alla produzione, cattura e irradiamento della selvaggina e della Lepre in particolare. Soprattutto nelle province emiliane esiste una tradizione consolidata di gestione della specie basata su aree di produzione e di cattura a fini di ripopolamento (AA.VV., 2008d, 2008f). In alcune realtà locali, come la provincia di Modena (Ferri, 1992), le zone di ripopolamento e cattura hanno assunto col tempo un ruolo di primo piano nella gestione complessiva della Lepre, infatti il loro numero è aumentato passando dalle 6, per complessivi 12.000 ha., del 1950 alle oltre 100, per complessivi oltre 60.000 ha., dei primi anni ‘80. Nonostante il progressivo decremento della produzione naturale di selvaggina abbia imposto forti limitazioni alle catture, questa condizione consente tuttora alla provincia di Modena di sostenere generalmente l’attività venatoria senza ricorrere al rilascio di capi allevati o di importazione. Interessante è inoltre la circostanza che molte di queste aree, a parte modeste modifiche dei confini intervenute successivamente, sono state mantenute attive senza soluzione di continuità per decenni, in alcuni casi fin dagli anni ‘50, rendendo tra l’altro in questo modo disponibili serie storiche di dati di cattura particolarmente cospicue e certamente non comuni nel panorama faunistico-venatorio italiano. La distribuzione regionale interessa la quasi totalità del territorio, a conferma del fatto che la Lepre possiede un’ampia valenza ecologica ed è in grado di adattarsi a tipologie ambientali assai diversificate, tanto che risulta abbastanza difficile individuare un habitat ottimale per la specie. Tuttavia una presenza così diffusa sul territorio deve essere messa in relazione anche alle regolari e massicce immissioni a scopo venatorio.
Nella provincia di Piacenza (AA.VV., 2008c), tra le specie di piccola selvaggina presenti con popolazioni naturali la Lepre è quella più diffusa e forse l'unica che mantiene una presenza naturale, seppur generalmente non molto elevata, anche nelle zone di caccia libera. La sua distribuzione è ubiquitaria in ambito provinciale ad eccezione delle aree intensamente antropizzate o prevalentemente coperte da boschi e il 95% della superficie provinciale risulta interessata dall'areale di distribuzione e comprende le aree planiziali e quelle golenali, collinari e montane. In generale lo status della specie risulta influenzato, oltre che dalla produttività dei territori, dal regime di gestione faunistico-venatoria. Le catture annuali complessivamente effettuate nelle ZRC provinciali nel corso dell’ultimo ventennio evidenziano come si sia assistito ad una decisa ripresa delle popolazioni dopo il calo progressivo e continuo fatto registrare dal 1982 ai primi anni 90 e il mantenimento dei livelli minimi raggiunti fino al 1995 (AA.VV., 1994c).
In provincia di Parma (AA.VV., 2007b) la lepre risulta presente in tutto il territorio e può essere considerata la specie in cui vengono investiti i maggiori sforzi in termini gestionali. Nel comprensorio di bassa pianura si è assistito negli anni ’90 del secolo scorso a una diminuzione, collegabile probabilmente a una perdita di vocazionalità che aveva dimezzato i valori di densità della specie (AA.VV., 1994b), mentre nel comprensorio di alta pianura e collina si rilevava una migliore produttività media.
In provincia di Reggio Emilia (AA.VV., 2008d) la Lepre può essere considerata ubiquitaria con popolazioni stabilmente presenti anche in ambienti considerati estremi per la specie come i grossi corpi forestali del crinale e le brughiere d’alta quota sottoposte ad innevamenti prolungati. Un’analisi sulla biologia e sul comportamento della Lepre descritta già nel dopoguerra suggerisce la possibilità che fosse presente localmente un “ecotipo” morfologicamente diverso rispetto all’attuale con dimensioni complessivamente inferiori, gambe e orecchie più corte e muso più affusolato e maggiormente legato agli ambienti forestali. Caratteristiche che persistono negli animali osservati nella valle del Torrente Ozola, ora in buona parte compresa nel territorio del Parco nazionale dell’Appennino tosco-emiliano. La prassi gestionale del ripopolamento senza tener conto della derivazione dei soggetti immessi, vista anche l’entità numerica e il protrarsi del fenomeno, è probabilmente l’attività che più ogni altra ha contribuito alla scomparsa dell’ecotipo locale. La demografia della Lepre dal dopoguerra ad oggi ha avuto un andamento tipicamente ciclico con una tendenza generale all’aumento delle catture evidenziato nella serie storica degli esemplari catturati e dei ripopolamenti realizzati.
Nella provincia di Modena (AA.VV., 2008b) la lepre è diffusa dalle Valli alle praterie cacuminali. L’ambiente agricolo tradizionale appare quello meglio idoneo nonostante segni di presenza della specie si rinvengano numerosi anche nella porzione appenninica del territorio provinciale. La condizione della lepre nel modenese risente, in vaste porzioni del territorio, del modello gestionale in uso. Si osserva infatti una situazione caratterizzata dall’abbondanza in alcune aree di produzione, a fronte di altre (aree di caccia) dove la specie è probabilmente presente a basse densità, con valori di densità mediamente più elevati nella porzione planiziale della provincia.
In provincia di Ferrara la popolazione viene considerata complessivamente stabile, seppure con episodi locali di forti oscillazioni, come osservato nell’area del Mezzano nel periodo 1990-93 (AA.VV., 1994).
In provincia di Forlì-Cesena la Lepre risulta uniformemente presente sul territorio, pur con notevoli variazioni locali e stagionali della densità. Rilevamenti condotti negli anni ’90 del secolo scorso avevano evidenziato che la specie risulta abbondante in tutte le stagioni solo nelle aree demaniali, ad altitudini superiori a 7-800 m. (Gellini e Matteucci, 1992).
Condizioni che possono essere considerate generalmente valide per tutte le province sono una uniforme presenza della specie sul territorio, dalla pianura alla montagna, anche se lo status risulta pesantemente condizionato dall’attività venatoria e caratterizzato da notevoli variazioni locali e stagionali della densità (AA.VV., 1994a, 1994b; AA.VV., 2008a, 2008b; AA.VV., 2009a, 2009b).
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Aspetti della biologia della Lepre rilevanti ai fini gestionali
Uso dell’habitat, dinamica di popolazione, fattori limitanti
La Lepre è una specie ben adattata agli ambienti aperti, a dominanza di consociazioni erbacee e arbustive. La dieta si basa soprattutto sul consumo di Poaceae (Graminaceae), spesso coltivate, ma in estate le Viciaceae (tra cui Trifolium sp., Medicago sp., Vicia sp.) le Asteraceae, soprattutto Taraxacum officinale, costituiscono una componente importante anche se non predominante (Trocchi e Riga, 2005). Nei moderni agro-ecosistemi le associazioni naturali sono ormai in gran parte sostituite da quelle coltivate, alle quali peraltro la Lepre mostra di adattarsi perfettamente, tanto che proprio in questi ambienti artificiali si riscontrano densità maggiori (Spagnesi e Trocchi, 1992; Pandini, 1998; Trocchi e Riga, 2005).
Gli studi effettuati in vari contesti ambientali, pur mostrando risultati parzialmente difformi, sono concordi nell’evidenziare una preferenza per i cereali autunno-vernini, gli erbai e le stoppie. Da una ricerca effettuata in 83 istituti faunistici pubblici e privati della provincia di Siena (Rosa et al., 1991) è risultato che in primavera i tipi di vegetazione preferiti sono stati i cereali a semina autunnale e i prati da vicenda, mentre vengono evitate le porzioni arate. Durante l’autunno sono state osservate preferenze per le stoppie, i prati da vicenda e i vigneti. Tipologie complessivamente evitate sono state i pascoli, gli incolti, gli arati e le coltivazioni a semina primaverile. Nella pianura pavese (Prigioni e Pelizza, 1992), oltre a preferenze per i cereali autunno-vernini, sono state osservate preferenze per la soia, le aree boscate e gli incolti. Il mais e gli arati sono risultati evitati, mentre i pioppeti artificiali sono stati selezionati positivamente in autunno, ma evitati in primavera. I pascoli sono risultati la tipologia maggiormente utilizzata a scopo alimentare durante tutto l’anno. Gli autori hanno inoltre osservato che le lepri tendono a non utilizzare come ambienti di rifugio gli stessi usati a scopo alimentare. Studi effettuati nell’area del Mezzano (FE) mediante radiolocalizzazione di lepri di allevamento successivamente al rilascio (Zanni et al., 1988) hanno mostrato un uso dell’ambiente parzialmente diverso: il mais e l’incolto sono stati utilizzati in modo significativamente superiore alle disponibilità, mentre un utilizzo inferiore alle disponibilità è stato osservato per bietole, frumento e medica, completamente trascurate sono apparse le colture orticole e la soia. Anche in considerazione del fatto che si tratta di esemplari allevati, gli Autori oltre a sottolineare una notevole variabilità individuale nell’uso dell’ambiente, pongono l’accento sulla necessità di un confronto nella stessa area con individui selvatici. Modificazioni significative nell’uso dell’habitat di soggetti rilasciati sono state osservate, a parità di condizioni ambientali, anche in funzione del tempo trascorso dal rilascio (Giovannini et al., 1988). Spiccate preferenze per le aree boscate sono state rilevate solo in presenza di un forte pascolamento delle zone aperte da parte di altri erbivori (Nilsson e Liberg, 1992).
Nel complesso la Lepre mostra una decisa preferenza per gli ambienti erbacei sia coltivati sia naturali, tuttavia appare in grado di utilizzare alternativamente e in modo ottimale le altre tipologie ambientali disponibili a seconda delle condizioni e delle esigenze legate al periodo stagionale, caratteristica che spiega la capacità di colonizzare e adattarsi con relativa facilità anche ad ambienti caratterizzati da scarsa presenza di coltivi o a dominanza di aree boscate.
Numerosi fattori ambientali influenzano la dinamica delle popolazioni selvatiche, agendo a seconda dei casi sulla natalità, sulla mortalità o su entrambe contemporaneamente. A questi si aggiungono fattori di natura sociale (emigrazione ed immigrazione). Questi ultimi nel caso della Lepre sono relativamente poco importanti, in considerazione dello stretto legame che la specie stabilisce con il proprio territorio, a condizione che l’unità di gestione considerata sia di adeguata estensione e delimitata da confini naturali (Spagnesi e Trocchi, 1992). Il tasso medio annuale di natalità della Lepre è stimato in 7-9 leprotti per femmina con variazioni legate principalmente alla lunghezza del periodo riproduttivo e alla percentuale di sterilità, che può oscillare tra il 15% e il 30% dei capi (Spagnesi e Trocchi, 1992). I dati sugli incrementi medi di popolazioni naturali raccolti in Italia in località e contesti diversi appaiono assai eterogenei (Pandini, 1998), da 30,7% in territori boscosi e fittamente cespugliati del Carso Triestino, al 71% in aree intensamente coltivate del Pordenonese, al 109,7% in seminativi asciutti del Goriziano, Nell’Italia centrale sono stati rilevati incrementi dal 36,3 al 104,1% e nella Pianura Padana da 36,5 a 174,2%.
E’ tuttavia nei fattori di mortalità che vanno individuate le cause principali in grado di condizionare l’incremento utile annuo e quindi la quota di individui prelevabile durante l’esercizio venatorio o per fini di ripopolamento. La mortalità risulta molto variabile su base annuale soprattutto nei giovani ed è in grado di influenzare in modo rilevante il successo riproduttivo delle popolazioni (Pandini, 1998). L’esame dei risultati di numerosi studi effettuati in vari paesi europei (cfr. Spagnesi e Trocchi, 1992) mostra una ampia variabilità dei dati: in Polonia sono state osservate nella stessa area variazioni del tasso di mortalità comprese tra il 34% e l’87% nel corso di cinque anni di studio (media 60%); in Danimarca, in una popolazione non sfruttata venatoriamente e in assenza di mammiferi predatori, sono state constatate in un periodo di tredici anni perdite medie del 44% dei giovani maschi e del 56% delle giovani femmine, con tassi complessivamente oscillanti tra il 28% e il 58%; nella ex Germania orientale sono riportate perdite tra i leprotti dell’85-95% in un territorio scarsamente favorevole alla specie, e del 63-88% in uno con caratteristiche di buona idoneità; in Francia studi sulla produttività in varie aree hanno evidenziato una mortalità giovanile media compresa tra il 52% e il 75%. La meccanizzazione agricola può rappresentare localmente un fattore di mortalità molto importante, ad esempio in Polonia è stato stimato che sia imputabile a questa causa una perdita media del 15% dell’incremento annuo. Le condizioni climatiche sembrano rivestire un ruolo rilevante nella dinamica delle popolazioni di Lepre. In Danimarca sono stati rilevati effetti negativi delle precipitazioni nei mesi di giugno e luglio sulla sopravvivenza dei leprotti. In Polonia sono state osservate correlazioni positive tra la densità autunnale delle lepri ed il rapporto precipitazioni di giugno/precipitazioni di aprile. In Germania nel periodo 1956-87 è stata osservata una forte correlazione tra la dinamica annuale dei carnieri e le condizioni climatiche nei mesi di luglio e agosto (Nyenhuis, 1990). Anche la persistenza del manto nevoso e le temperature medie durante l’inverno sono direttamente correlate alla mortalità invernale delle lepri, che si traduce in una minore produttività della specie l’anno successivo. La mortalità invernale appare comunque piuttosto variabile sia localmente sia in anni successivi. In Italia sono state riscontrate mortalità invernali medie del 25% (Verdone et al., 1991). In Francia sono state evidenziate correlazioni tra la quantità totale delle precipitazioni annue e i carnieri di Lepre realizzati tra il 1950 ed il 1971. Le condizioni climatiche possono inoltre svolgere un ruolo rilevante per quanto riguarda l’incidenza di malattie infettive o parassitarie, un fattore di mortalità che può assumere in talune circostanze un’importanza non trascurabile (Birkan e Pepin, 1984).
Il tasso di mortalità degli adulti durante la stagione riproduttiva sembra invece essere un parametro meno variabile rispetto al precedente, attestandosi nei vari studi condotti attorno al 10-20% (cfr. Spagnesi e Trocchi, 1992). Un fattore non trascurabile di mortalità si può individuare nello sviluppo della rete viaria, che genera conseguenze negative, in particolare un maggior numero di decessi dovuti ad investimenti (Prigioni e Pelizza, 1992) e l’aumento del bracconaggio. La mortalità dovuta al traffico automobilistico in certi casi può raggiungere il 6% della consistenza della popolazione, in altri può rappresentare fino all’11% della mortalità complessiva e il 62,8% di quella giovanile (Pandini, 1998).
L’importanza della predazione come fattore di mortalità e la sua influenza sulla dinamica delle popolazioni di Lepre risulta spesso, come per altre specie, di non facile interpretazione. Numerose sono le specie, sia di mammiferi sia di uccelli, che esercitano una predazione più o meno regolare sulla Lepre, tuttavia, anche se in talune condizioni mortalità elevate possono essere causate da gatti e cani randagi o comunque vaganti, si può considerare che solo la volpe rivesta un ruolo significativo (cfr. Spagnesi e Trocchi, 1992; Pandini, 1998). In Polonia è stato osservato che la predazione della volpe può ridurre del 10,2% l’incremento annuale della specie (autunno), del 2,9% il numero di riproduttori nella primavera-estate e dell’1,8% la popolazione invernale. In Svezia è stato valutato che la predazione riduce del 12% l’incremento annuo della popolazione di lepri. In un’area di studio nello Hampshire (Gran Bretagna) si è potuto constatare che la Lepre rappresenta una delle principali risorse alimentari per la volpe e che la predazione da essa esercitata risulta importante soprattutto sui giovani, in misura tale da condizionare il tasso di sopravvivenza delle lepri. Questi dati sarebbero confermati anche in altri paesi dagli effetti che forti riduzioni della volpe, legate ad esempio all’insorgere di epidemie di rabbia silvestre, hanno avuto sui carnieri di Lepre. Spagnesi e Trocchi (1992), in accordo con Toso e Giovannini (1991), concludono che un’effettiva limitazione della densità di fine inverno delle popolazioni di Lepre da parte della volpe non sia dimostrata, mentre è noto che la densità dei riproduttori è determinata principalmente dalla qualità dell’ambiente. D’altra parte una consistente densità della volpe può in effetti limitare il successo riproduttivo della Lepre, cioè in definitiva la produttività, entrando per questo in conflitto con gli interessi del mondo venatorio. Nel programmare una eventuale azione di controllo della volpe occorre poi tenere sempre presente l’importanza della valutazione del rapporto costi/benefici, tenuto conto della necessità di mantenere tale azione costante nel tempo e di attuarla con mezzi selettivi.
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La vocazione del territorio regionale per la Lepre
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DATO BIOLOGICO
Per la formulazione del modello le densità stimate nelle AC sono state riclassificate in 2 classi: classe 1, >0 e <20 ind./kmq; classe 2, >20 ind./kmq.
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MODELLO DI VOCAZIONE
Per la lepre è stata utilizzata la tecnica di regressione logistica con selezione forward. Il modello ha consentito di classificare correttamente il 84,8% dei casi (82,4% dei casi di classe1 e il 87,5% di classe 2). In questo caso il modello si è basato prevalentemente sull’abbondanza dei seminativi (semin), sebbene la procedura abbia inserito nel modello anche l’estensione delle strade (strade).
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In fase di applicazione del modello multivariato, il territorio di applicazione è stato delimitato applicando un modello multi criterio di presenza potenziale come per gli ungulati, ma con un razionale differente:
utilizzando la scheda REN (Boitani et al. 2002) per la specie, sono state individuate le categorie di uso del suolo che erano idonee alla specie.
Su queste categorie è stato costruito un buffer di 200 m.
Dal territorio individuato (categorie idonee + buffer) sono state escluse tutte le aree palesemente non idonee (le cat 1, i corpi idrici, etc.).
Sono stati poi applicati i vincoli altitudinali indicati sempre nella scheda REN, che per la lepre, però non rappresentavano reali limiti in questo contesto ecologico (Min, 0; Max, 2700).
Il modello statistico multivariato è stato quindi applicato sul territorio indicato come di presenza potenziale.
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CARTA DI VOCAZIONE BIOTICA
A partire dalla analisi delle aree campione suddivise in due gruppi (1 e 2), cioè aree con densità rilevata inferiore o superiore a 20 capi/kmq, la classificazione del territorio è stata ottenuta utilizzando 3 categorie di vocazione, ottenute in base alla probabilità di appartenenza al gruppo 2, segnatamente: alla categoria di minore idoneità vengono attribuite le celle con probabilità non superiore al 50% di appartenere al gruppo 2; alla categoria di idoneità intermedia vengono attribuite le celle con probabilità compresa tra il 50% e il 75% di appartenere al gruppo 2; alla categoria di massima idoneità vengono attribuite le celle con probabilità superiore al 75% di appartenere al gruppo 2.
In ambito regionale l’elevata idoneità per la specie è distribuita in misura nettamente prevalente in pianura, con superfici estese e compatte soprattutto nella provincia di Ferrara, ma fortemente rappresentate anche nelle province emiliane, mentre meno favorevole sembra la pianura nel settore romagnolo, probabilmente in ragione della peculiare abbondanza di coltivazioni specializzate e frutteti, circostanza che in questo caso fa assumere alla carta anche il valore di vocazione agro-forestale.
Il comprensorio appenninico si presenta complessivamente assai meno vocato della pianura, con le superfici a massima idoneità concentrate nella fascia collinare adiacente alla pianura, con l’eccezione delle province di Modena e Reggio Emilia, in cui si osserva massima vocazionalità fino ad altitudini relativamente elevate. Nella restante parte dell’Appennino la vocazione si attesta su valori medi o medio-bassi, in taluni casi fino a raggiungere le quote più elevate, coerentemente con le caratteristiche di grande adattabilità se non addirittura di ubiquitarietà della lepre, che ne rendono possibile la presenza pressoché in tutti gli ambienti regionali, comprese vaste formazioni forestali dell’orizzonte montano, dove può raggiungere localmente anche discrete densità.
Anche se indubbiamente le condizioni ambientali più favorevoli possono essere considerati gli agroecosistemi con dominanza di colture erbacee, come per tutte le specie con questo tipo di caratteristiche ecologiche è necessario sottolineare che in regione i territori classificati a vocazione minima solo molto raramente stanno a indicare ambienti con potenzialità nulle o bassissime, in quanto nella maggioranza dei casi mantengono una vocazione da considerarsi non irrilevante a scopi gestionali. Si può ritenere d’altro canto che la carta fornisca una efficace rappresentazione della vocazione della specie in termini soprattutto gestionali, nel senso che, per ragioni di opportunità logistica, non è prevedibile una attiva gestione produttiva della Lepre nella gran parte dei territori montani che, pure presentano discreta o buona vocazionalità ambientale.
Per quanto riguarda la possibilità di stimare le potenzialità produttive del territorio correlandole alla diversa vocazionalità, è necessario disporre di dati raccolti in varie situazioni ambientali e possibilmente in serie storiche. Dati sulla densità locale di lepri in Italia sono stati raccolti mediante specifici censimenti fin dall’inizio degli anni ’80 (Meriggi et al., 1988), tuttavia lo stato della ricerca in Italia per quanto concerne la dinamica delle popolazioni della Lepre veniva considerato alla fine degli anni ‘80 insufficiente (Meriggi, 1988). Successivamente e in anni recenti si è reso disponibile in Italia un certo numero di dati sulla densità e produttività di popolazioni di Lepre. Verdone et al. (1988) hanno condotto per vari anni censimenti in cinque aree della provincia di Pisa osservando densità autunnali variabili tra 17,6 e 115,3 capi/100 ha. Prigioni e Pelizza (1992) in due aree della pianura pavese hanno osservato densità primaverili e autunnali pressochè identiche (rispettivamente 20,9 e 19,1 capi/100 ha., 40,7 e 43,9 capi/100 ha.), con incrementi annui medi del 114,0%. Pandolfi et al. (1991), per due zone di ripopolamento e cattura della provincia di Ancona riportano densità pre-riproduttive variabili da 9,5 a 17,1 capi/100 ha. e densità pos-triproduttive variabili da 10,8 a 12,3 capi/100 ha. Gli stessi autori riportano per una terza area di studio aperta alla caccia valori di densità pre-riproduttive e post-riproduttive nettamente inferiori (1,16 e 0,19 capi/100 ha.). Mazzoni della Stella (1991) ha rilevato la densità di lepri in cinque aree collinari della provincia di Siena, riscontrando densità primaverili comprese tra 7,6 e 53,9 capi/100 ha. e densità autunnali comprese tra 18,9 e 63,8 capi/100 ha., con un incremento massimo del 148%. Meriggi e Alieri (1992) hanno riscontrato in 11 aree di studio della provincia di Pavia, situate in differenti fasce altitudinali e nel corso di vari anni, densità autunnali variabili tra 10 e 60 capi/100 ha. e densità primaverili (rilevate solo in pianura) variabili tra 6,4 e 15 capi/100 ha. In una zona di ripopolamento e cattura della provincia di Firenze ad elevata diversità ambientale sono state rilevate densità tardo estive di 49 capi/100 ha. e di 31 capi/100 ha. in inverno (Spagnesi e Trocchi, 1992). Scherini et al. (1992) hanno rilevato in zone di ripopolamento e cattura della provincia di Mantova densità comprese tra 16 e 20 capi/100 ha. e tra 35 e 43 capi/100 ha. rispettivamente in primavera e in autunno, corrispondenti a incrementi medi pari al 117%. Nell’area del Mezzano (FE) i censimenti notturni condotti nel triennio 1987-89 hanno evidenziato densità a fine inverno molto stabili: da 5,98 a 6,59 capi/100 ha. (Trocchi ined.).
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Aspetti gestionali
Censimenti
La corretta quantificazione del prelievo venatorio richiede la conoscenza e il monitoraggio regolare della dinamica delle popolazioni interessate. A questo scopo è necessario procedere a censimenti, effettuati in momenti opportuni del ciclo annuale, finalizzati alla determinazione della densità o almeno all’acquisizione di indici di abbondanza relativa. I censimenti devono essere effettuati due volte all’anno per determinare la densità pre-riproduttiva e quella post-riproduttiva (Pandini, 1998). Nel caso della Lepre il periodo più indicato per effettuare censimenti pre-riproduttivi si può individuare alla fine dell’attività venatoria (non prima di due settimane dalla chiusura dell’esercizio venatorio, in quanto durante il periodo di caccia le lepri sono indotte a mutare il loro comportamento, divenendo più elusive o concentrandosi all’interno di zone protette), facendolo coincidere con il censimento dei riproduttori di fine inverno (metà febbraio-metà marzo) onde verificare la situazione dopo il prelievo venatorio e la mortalità invernale e prima dell’inizio del reclutamento. Mentre il censimento post-riproduttivo dovrebbe essere condotto a riproduzione completamente conclusa, cioè a ottobre-novembre, tuttavia può essere opportuno anticipare a settembre il conteggio, se ciò è funzionale alla conoscenza del carniere prelevabile (Pandini, 1998).
La scelta delle tecniche di censimento e delle modalità di attuazione deve tener conto delle caratteristiche etologiche della specie, di quelle orografico-fisionomiche del territorio, nonchè della disponibilità di uomini e mezzi (Meriggi, 1989).
Le tecniche che, nel caso della Lepre, vanno considerate preferibili sia per la semplicità sia per il favorevole rapporto costi/benefici sono il censimento in battuta e il censimento notturno con l’ausilio di una sorgente luminosa, il quale garantisce buoni risultati in zone aperte e/o in periodi con scarsa copertura vegetale e con specie di abitudini spiccatamente notturne come la Lepre. Le battute prevedono l’utilizzo di un numero di operatori proporzionato alle dimensioni del fronte di avanzamento e del grado di copertura vegetale dell’area interessata. Il censimento notturno si effettua percorrendo con un automezzo strade e carrarecce lungo un itinerario prestabilito e illuminando le aree circostanti con fari alogeni mobili. L’illuminazione può avvenire per fasce (automezzo in lento movimento con faro acceso) oppure per punti (automezzo in sosta in punti prestabiliti con rotazione del faro). Per una trattazione dettagliata delle modalità di attuazione si rimanda a Spagnesi e Trocchi (1992). In considerazione del fatto che le battute con fronte molto ampio e su vasti territori risultano spesso difficili da attuare, risulta generalmente preferibile effettuare la battuta su strisce di ridotta larghezza (strip census) su aree campione rappresentative. Quest’ultima tecnica fornisce risultati attendibili e comparabili a quelli ottenibili con il censimento esteso all’intera area di intervento (Pepin e Birkan, 1981).
Oltre ai regolari censimenti, finalizzati alla conoscenza delle popolazioni locali, una mole significativa di dati e informazioni di tipo quali-quantitativo può essere ottenuta annualmente dall’analisi, anche campionaria, dei carnieri venatori, in particolare se sono state rilevate informazioni attendibili sullo sforzo di caccia, elemento che determina le condizioni sufficienti al calcolo di un indice di abbondanza concettualmente comparabile a quello derivabile dai censimenti (cfr. Birkan e Pepin, 1984; Spagnesi e Trocchi, 1992). In questo senso, in considerazione del fatto che annualmente molte amministrazioni provinciali organizzano battute per la cattura delle lepri a scopo di ripopolamento, potrebbe essere opportuno razionalizzare e standardizzare a livello organizzativo queste operazioni, finalizzandole non solo al prelievo degli esemplari, ma anche al monitoraggio delle popolazioni.
Miglioramenti ambientali
Recenti studi compiuti in Inghilterra (cfr. Spagnesi e Trocchi, 1992) hanno dimostrato che la densità della Lepre è strettamente e positivamente correlata al grado di parcellizzazione degli appezzamenti agricoli. Così territori agricoli suddivisi in diverse tipologie colturali di qualche ettaro presentano densità di lepri notevolmente superiori ad equivalenti territori utilizzati a monocoltura semplice. Di un certo interesse risulta il fatto che alla Lepre sembrano congeniali ambiti territoriali in cui si pratica la zootecnia, in quanto gli effetti del pascolamento (erbe basse in buona rinnovazione e frequenti zone cespugliate) influiscono positivamente sulla disponibilità alimentare, a condizione che la pressione di pascolamento non sia eccessiva (cfr. Nilsson e Liberg, 1992). Gli effetti negativi della monocoltura, soprattutto dal punto di vista della disponibilità stagionale di risorse trofiche, possono essere mitigati attraverso la predisposizione di fasce verdi a perdere seminate a foraggio di larghezza anche di pochi metri (Frylestam, 1992). Le caratteristiche degli attuali seminativi rappresentano un elemento negativo dal punto di vista trofico; infatti la semina in strutture spaziali compatte e l’uso, molte volte irrazionale ed eccessivo di diserbanti, lascia ben poco spazio ad altre specie erbacee appetite dalla Lepre. Pratiche frequentemente utilizzate come la bruciatura delle stoppie o dei residui di coltivazione possono provocare perdite dirette non trascurabili tra i leprotti, oltre ad avere effetti negativi indiretti sottraendo importanti risorse alimentari.
Anche le moderne tecniche di coltivazione costituiscono un fattore negativo per la Lepre, sia per quanto riguarda la meccanizzazione sia per le caratteristiche dei seminativi. Le operazioni di sfalcio e trebbiatura compiute con macchine dotate di barre falcianti molto ampie e sempre più veloci sono una delle cause di mortalità più importanti per i leprotti. Sono stati compiuti studi al riguardo e si è trovato che, passando da una velocità di sfalcio di 3-4 km/ora ad una di 7-8 km/ora, la mortalità dei leprotti passava dal 17% al 40% (Scarlatescu et al., 1967). Di fatto oggi gli sfalci vengono attuati a più riprese in piena stagione riproduttiva e con l’ausilio di macchine sempre più veloci.
In sintesi, dal momento che gli interventi di miglioramento ambientale devono tendere all’aumento della capacità portante dell’ambiente, è necessario procedere in primo luogo alla realizzazione di interventi volti all’aumento della diversità ambientale e in grado di garantire una sufficiente e costante disponibilità alimentare. Questi obiettivi possono essere raggiunti anche nei territori interessati da uno sfruttamento agricolo intensivo, ad esempio attraverso il razionale utilizzo delle porzioni marginali e meno produttive dal punto di vista agricolo, tutelando e incrementando le fasce di vegetazione naturale o seminaturale e realizzando coltivazioni a perdere. In questo modo si ottengono effetti positivi sulla fauna selvatica limitando al minimo l’impatto economico dovuto alla riduzione del raccolto. Particolarmente importante risulta, a parità di superficie complessiva interessata dai miglioramenti, la dispersione spaziale degli stessi. Tra gli interventi tesi all’aumento della capacità portante può essere incluso anche il foraggiamento artificiale, il quale tuttavia può risultare realmente utile solo in determinate condizioni climatiche (es. persistenza del manto nevoso) per ridurre la mortalità diretta e per evitare che gli animali si allontanino eccessivamente alla ricerca di cibo. Interventi di contenimento della mortalità, soprattutto a carico dei giovani individui, causata da operazioni agricole come la mietitura, lo sfalcio dei foraggi o l’erpicatura, possono essere attuati ad esempio incentivando e promuovendo presso gli agricoltori l’uso di dispositivi meccanici posti davanti alle macchine agricole, così come estremamente utili risultano l’esecuzione delle operazioni in senso centrifugo rispetto all’appezzamento e il mantenimento delle lame ad un’altezza dal suolo non inferiore a 10 cm.
Ripopolamento
In Italia la pratica dei ripopolamenti può essere fatta risalire per la lepre ai primi anni del secolo scorso e si è andata progressivamente intensificando nei decenni successivi. Da una prima stima effettuata nella stagione 1935/36 sono risultati immessi circa 200.000 capi, tra cui 4.000 di cattura nazionale (Toso e Trocchi, 1998). Secondo dati raccolti nel 1982, in quel periodo circa 300.000 lepri venivano liberate annualmente (Meriggi e Pandini, 1997) e anche più recentemente si conferma la grande diffusione di questi interventi gestionali (Meriggi et al., 2001).
Il ripopolamento viene effettuato utilizzando capi provenienti da tre origini diverse: capi di allevamento, capi catturati di importazione e capi catturati in ambito locale. E’ utile esaminare l’efficacia di ciascuna metodologia attraverso l’analisi dei dati disponibili (cfr. Meriggi et al., 2001).
Pur avendo origini antichissime, l’allevamento della Lepre si è sviluppato assumendo importanza commerciale solo negli ultimi decenni. In Francia la produzione annuale complessiva ha raggiunto i 200.000 capi negli anni ‘80 del secolo scorso (Fiechter, 1988) e in Italia da una indagine svolta dall’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica è emersa nel 1982 la presenza di 608 centri di produzione tra pubblici e privati (Trocchi, 1983). Le ragioni di questo incremento vanno ricercate nell’incremento del numero dei cacciatori, nella diminuita produttività degli ambienti naturali e, non ultimo, nell’onerosità economica dell’acquisto di lepri di importazione, operazione tra l’altro criticabile anche per altre ragioni (Spagnesi e Trocchi, 1992).
Un primo dato riguarda l’opportunità dell’utilizzo di strutture di ambientamento sul territorio prima del rilascio, infatti le ricerche svolte sull’argomento specifico (Fiechter et al., 1978; Fiechter, 1980; Fiechter, 1988) indicherebbero che il tasso di sopravvivenza degli individui immessi risulterebbe indipendente, o addirittura influenzato negativamente, dall’uso di tali strutture. In Francia studi effettuati in varie regioni hanno evidenziato, nel corso della prima stagione venatoria, tassi di ripresa degli esemplari rilasciati piuttosto modesti: dal 3,6% a un massimo del 13,86%. Durante la seconda stagione venatoria viene riportato un tasso di ripresa dello 0,62% (Fiechter, 1988). Nello studio effettuato da Fiechter (1988) la mortalità dei soggetti immessi è risultata elevata già nella prima settimana successiva al rilascio (oltre il 50%), per raggiungere il 79% dopo sei settimane, mentre la dispersione è risultata generalmente limitata e la quasi totalità dei soggetti rilasciati è stato rinvenuto in un raggio di due chilometri dal punto del rilascio.
Non sono numerosi in Italia i dati disponibili sul successo di esperienze di ripopolamento con soggetti allevati. Audino e Forano (1985) riportano per la provincia di Cuneo risultati migliori di quelli rilevati in Francia: su un totale di 100 capi rilasciati in tarda estate in tre aree è stato osservato nel gennaio successivo un tasso medio di ricattura del 42,3%. Risultati abbastanza positivi vengono riferiti anche da Zanni et al. (1988), che attraverso radiolocalizzazione di 10 esemplari di allevamento rilasciati nell’area del Mezzano (FE) hanno osservato un tempo medio di sopravvivenza di 99,7 giorni, con un solo decesso riscontrato nei primi due mesi. Le cause di mortalità sono state ricondotte non tanto a problemi di ambientamento o ad alterazioni comportamentali, quanto a fattori legati all’attività umana. Uno studio del tutto analogo, svolto presso il fondo di proprietà dell’Istituto Nazionale per la Fauna Selvatica (Giovannini et al., 1988) con le stesse metodologie, ha evidenziato un andamento della mortalità pressochè identico a quelli osservati in Francia. Angelici et al. (1993), nel corso di uno studio condotto nel Lazio, hanno verificato su 777 lepri di allevamento rilasciate una percentuale di ricattura molto bassa (0,9%). Sempre nel corso dello stesso studio è stata accertata, attraverso radiolocalizzazione di 15 soggetti marcati, una dispersione mediamente molto limitata, in accordo con altri studi similari, nonchè una mortalità decisamente elevata (80% complessivamente, 50% nei primi 10 giorni), dovuta quasi esclusivamente a predazione. E’ necessario peraltro sottolineare che prove sperimentali effettuate con piccoli contingenti non autorizzano conclusioni di tipo generale, in quanto i risultati sono soggetti ad ampie oscillazioni (cfr. Spagnesi e Trocchi, 1992: 220).
Allo scopo di ottenere un numero sempre maggiore di capi da immettere, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso sono state incrementate le importazioni da paesi esteri, di cui esistono statistiche attendibili solo dal 1967, dalle quali si rilevano fino agli anni ’90 valori annuali oscillanti tra 90.000 e i 120.000 capi, successivamente diminuiti fino a circa 40.000 (Toso e Trocchi, 1998).
L’efficacia dei ripopolamenti con lepri di importazione è stata estesamente studiata sia in Francia sia in Italia. In Francia, su circa un centinaio di aree sottoposte a verifica la percentuale di ripresa nei carnieri venatori ha oscillato tra il 3 e il 30%, con media attorno al 20%, mentre il contributo al carniere su base nazionale è stato dell’1,2% (Meriggi et al., 2001). In altri studi le percentuali di ripresa hanno oscillato in media tra 11,1% e 22,4%. In Italia dati raccolti su un campione di quasi 3.000 esemplari hanno mostrato tassi di ripresa molto costanti, attorno a 11-12%, in media non molto dissimili da quelli ottenuti in Francia (Toso e Trocchi, 1998).
Tali risultati sono stati confermati anche da altri studi e sono risultati sostanzialmente indipendenti dall’utilizzo o meno di strutture di ambientamento. I dati disponibili relativamente alla sopravvivenza delle lepri di importazione (cfr. Spagnesi e Trocchi, 1992) non sembrano differire complessivamente da quelli osservati nel caso delle lepri allevate o di cattura locale.
Dati sull’efficacia di ripopolamenti con lepri di cattura locale sono molto scarsi in Italia. Spagnesi e Trocchi (1992), riportano i risultati dell’immissione di lepri di cattura in un’area ad alta densità della specie: la sopravvivenza delle lepri rilasciate a un anno di distanza è risultata del 5%, contro il 28,3% della popolazione autoctona. Gli stessi autori riportano che in Francia nel corso della prima stagione venatoria sono stati rilevati tassi di ripresa per le lepri di cattura del 4,4%; in Polonia le percentuali di sopravvivenza delle lepri rilasciate sono risultate inversamente correlate alla densità della popolazione autoctona. Nel complesso questa metodologia sembra offrire risultati migliori rispetto alle lepri di importazione, in termini di rapporto costi/benefici, in ogni caso, in generale, i risultati appaiono variabili e dipendenti da molti fattori, i principali individuabili nella densità di capi già presenti nell’area di immissione, nella predazione e nella qualità dell’ambiente (Meriggi et al., 2001).
Per quanto concerne il ripopolamento con soggetti di importazione, ancor prima dell’efficacia è necessario porre l’accento sui rischi, sottolineati da numerosi autori, legati sia all’inquinamento genetico delle popolazioni locali sia alla possibile introduzione di forme patogene sconosciute o comunque assenti localmente e pertanto potenzialmente estremamente pericolose.
In generale, le operazioni di ripopolamento presentano un rapporto costi/benefici fortemente negativo, rispetto al quale probabilmente non vi è una sufficiente consapevolezza, sia nell’ambiente venatorio sia fra i pubblici amministratori (Toso e Trocchi, 1999).
Secondo Meriggi et al. (2001) tra le metodologie di ripopolamento della lepre, solo quella che prevede l’utilizzo di capi di provenienza locale è in grado di offrire risultati discreti in termini di sopravvivenza, anche se soggetti a notevole variabilità, tuttavia, sulla base dei dati disponibili e delle esperienze condotte, Spagnesi e Trocchi (1992) sottolineano che il solo ricorso alle operazioni di ripopolamento non consente di risolvere i problemi della gestione delle popolazioni di Lepre, pertanto occorre ricercare strumenti di intervento tesi al miglioramento degli ambienti naturali e alla razionale gestione delle popolazioni locali.
Prelievo venatorio
La caccia può costituire una delle principali cause di mortalità per le lepri e, se non opportunamente regolamentata, può condurre alla scomparsa locale della specie (Spagnesi e Trocchi, 1992). L’insieme dei dati disponibili sulla dinamica di popolazioni naturali e considerazioni relative alla mortalità, legata a fattori sia naturali sia artificiali, inducono la maggioranza degli autori a ritenere che sulle popolazioni selvatiche raramente si verificano le condizioni per realizzare un prelievo superiore al 50% della consistenza post-riproduttiva, e di norma non debba essere superato il 30-35%, in ogni caso si sottolinea la necessità di effettuare regolari monitoraggi al fine di calibrare il prelievo sulle specifiche condizioni locali, evitando le conseguenze negative di una pressione venatoria esercitata in assenza di piani di prelievo correttamente formulati (Pandini, 1998).
Ai fini della razionale definizione dell’entità del prelievo risulta fondamentale la stima del successo riproduttivo, ottenuto attraverso l’accertamento della consistenza dei riproduttori in primavera e del rapporto juv:adulti prima dell’inizio della stagione venatoria, oppure, in alternativa, analizzando i carnieri nelle prime fasi del prelievo. Valori buoni possono essere considerati 3:2 o 2:2, mentre rapporti più bassi, ad esempio inferiori a 1:2 sono indice di scarso successo riproduttivo e quindi di una popolazione declinante e certamente non in grado di sostenere alcun prelievo (Pandini, 1998).
In considerazione del fatto che il tasso di mortalità degli adulti nel periodo riproduttivo tende ad essere piuttosto costante, si ritiene possa essere mediamente fissato in condizioni normali nel 20% della consistenza di fine inverno, ma il verificarsi di anomali fenomeni di mortalità nel corso della stagione riproduttiva deve essere valutato allo scopo di quantificare le opportune correzioni (Spagnesi e Trocchi, 1993). Come è già stato sottolineato, decisamente più variabile su base annuale risulta il tasso di mortalità dei leprotti, che, di conseguenza, deve essere considerato il principale fattore nella quantificazione dei piani di prelievo annuali. Un modello semplificato di tipo conservativo per il calcolo del prelievo annuale in una popolazione di lepri è stato proposto già all’inizio degli anni ‘80 (Pepin 1981 in Spagnesi e Trocchi, 1992):
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dove:
P = entità del prelievo
R = numero di riproduttori a fine inverno
x = % di sopravvivenza degli adulti nel periodo riproduttivo
J = numero di juv. per adulto all’inizio della stagione venatoria
y = % media di sopravvivenza delle lepri nel periodo invernale
Si può osservare che 1/y R rappresenta la consistenza da conservare al termine della stagione venatoria per disporre a fine inverno della stessa quantità di riproduttori a fine inverno.
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